Il 2019, l’anno della cannabis light

​​​​​​​Il 2019 si è chiuso con un nuovo approccio degli organi di governo e giudiziari italiani sul mondo della cannabis

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La sentenza della Corte di Cassazione del 19 dicembre 2019 ha però affermato che la coltivazione di cannabis, con un livello di concentrazione di THC superiore alla percentuale dello 0,6% stabilita dal legislatore italiano come limite di legalità della sostanza, non è vietata se, da una serie di indici presuntivi, è possibile dedurre che si tratta di una coltivazione meramente ad uso personale.

Cosa può significare questo per coloro che si occupano di vendita di semi di marijuana? La conseguenza immediata, qualora questo principio di diritto fosse accolto dal legislatore, sarebbe di poter vendere, a determinate condizioni, semi di cannabis non da collezione, ma per la coltivazione privata, domestica e ad uso personale, oltre, naturalmente, alla commercializzazione di quelli le cui piante hanno una percentuale di THC minore allo 0,6%.

Il limite è dello 0,6% o dello 0,2%?

Il limite di concentrazione di THC dello 0,6% deriva dalla legge italiana 242/2016, che si occupa di regolare la coltivazione della canapa ad uso industriale nel nostro paese. Quello che emerge da questa disposizione è molto chiaro: la coltivazione e la vendita di cannabis che abbia una percentuale di tetraidrocannabidiolo inferiore allo 0,6% è legale, almeno in Italia.

Lo 0,2% è soglia fissata invece dal legislatore europeo, che si è dedicato all’argomento con un dittico di regolamenti, a distanza di un anno l’uno dall’altro. Il primo, il 1306/2013, accordava la possibilità ai coltivatori di canapa di richiedere ed ottenere incentivi fiscali da un fondo europeo, alla condizione che le piante coltivate non avessero un percentuale di THC maggiore dello 0,2%. Il Regolamento successivo (Reg. UE 639/2014) ha completato il quadro, stabilendo che l’accesso ai sussidi è concesso solo in caso di coltivazione dei tipi di pianta di canapa ammessi dal legislatore europeo e riportati in un registro apposito. Nulla è statuito a proposito della commercializzazione dei prodotti della pianta di cannabis.

Dal confronto e dalla combinazione di queste due normative, si nota come la prescrizione dello 0,2% del legislatore europeo riguardano specificatamente l’accesso ai fondi europei per il finanziamento dell’attività. Per il resto, il nostro paese risponde alla legge italiana. Da questo è derivata la disposizione, contenuta sempre nella legge 242/2016, che nega la responsabilità di chi coltivi o commercializzi infiorescenze di cannabis con una concentrazione di THC compresa tra lo 0,2% e lo 0,6%. Ancora, al di sotto di questa soglia, l’attività non necessita neanche di un’autorizzazione.

Si applica, invece, in ogni caso anche in Italia, la previsione per cui le piante ammesse sono quelle iscritte nel registro predisposto dall’Unione Europea, in quanto norma non specifica all’accesso ai finanziamenti, ma stabilita nell’interesse generale, a tutela della salute pubblica. L’Italia, in quanto paese aderente all’Unione Europea, è quindi tenuta a far rispettare tale disposizione.

Quali sono le novità del 2019?

Le maggiori novità del 2019 sono le sopracitata sentenza della Corte di Cassazione del 19 dicembre e una, di poco precedente, circolare del Minostro della Salute che si occupa della regolamentazione dell’uso dei prodotti derivati della marijuana a scopo alimentare.

Entrambi questi interventi derivano da un’importante presa di coscienza del popolo e degli organi di governo dello Stato italiano, almeno della maggior parte di esso, delle potenzialità salutari e vantaggiose della coltivazione della canapa e dell’utilizzo dei prodotti da essa derivati.

Partendo dal primo punto, la coltivazione della canapa, la Corte di Cassazione, come anticipato, ha ritenuto legale e, quindi, ha escluso che si tratti di reato, la condotta di chi coltivi in casa piante di cannabis anche con una percentuale di THC superiore allo 0,6%, quando sia chiaro che l’attività sia destinata ad un uso personale. La Corte aiuta l’interprete riportando gli indici, che devono sussistere tutti, per dedurre una tale circostanza: la forma domestica della coltivazione, la modesta quantità di piante e, quindi, del prodotto ricavabile, la rudimentalità dell’attrezzatura e la mancanza di altri indizi che facciano pensare ad una messa in commercio del prodotto che derivi dalla coltivazione.

A parte la portata normativa assolutamente innovativa della sentenza, con essa la Suprema Corte declina il principio della tutela della salute pubblica in un paradigma più pratico e realistico. Se il danno che derivi dalla coltivazione domestica di una minima quantità di marijuana ad uso personale è sì potenziale, ma minimo, la persona che ricerchi il prodotto sul mercato illegale di cannabis, va sicuramente incontro a maggiori rischi ed alimenta un commercio fuori legge, pericolo e con dubbi contatti con criminalità organizzate. Tra questi due pericoli, i giudici hanno ritenuto che la coltivazione della pianta di canapa, con quelle modalità, sia inoffensiva ed innocua per la tutela della salute pubblica ed anzi, molti uomini politici hanno sottolieato come possa essere utile a smantellare un mercato illecito.

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