Partanna – di Rino Giacalone – C’è stata una tomba in Italia dove per circa 20 anni non c’è stato scritto il nome di chi vi è sepolto. C’è la foto, ma il nome non è stato scritto per lungo tempo. Quasi fosse impronunciabile e quindi nessuno deve leggerlo. Siamo nel cimitero di Partanna, Valle del Belìce, provincia di Trapani. Qui è sepolta Rita Atria. Testimone di giustizia. Morta suicida a Roma il 26 luglio del 1992. Una settimana dopo la strage mafiosa di via d’Amelio a Palermo. Qui furono straziati dal tritolo di Cosa nostra il procuratore Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli. Rita Atria figlia e sorella di boss di Cosa nostra aveva seguito nel dovere della testimonianza la cognata Piera Aiello.
Si erano affidati a Paolo Borsellino, Rita era la “picciridda”, appena diciassettenne , che era diventata grande, raccontando a Borsellino, Procuratore della Repubblica a Marsala e poi Procuratore aggiunto a Palermo, quello che aveva appreso ascoltando le conversazioni del padre, Vito, uno potente a Partanna, poi ucciso nella sanguinosa faida degli anni ’90, identica sorte poi toccata a Nicola, il fratello maggiore di Rita, il marito di Piera Aiello. Rita restò sconvolta da quella strage dove aveva perso il suo secondo padre, così considerava Paolo Borsellino, che consapevole aveva accettato quel ruolo per dar forza a quella ragazzina.
Rita morì ma le sue parole non erano pronunciate a vanvera. La sua testimonianza entrò in diversi processi, dove furono pronunciate pesanti condanne. Svelò gli intrighi del Belìce, la mafia che faceva affari fiancheggiata da certa politica e da alcuni imprenditori. Non ci furono altri motivi se non questi a tenere celato pure in quel cimitero, pieno di morti ammazzati per mano mafiosa e dove sono sepolti pure i boss morti da capi mafia nelle loro case onorate e frequentate dalla migliore borghesia.
I nomi di questi sono ben stampati, quello di Rita Atria venne scritto in una targa che per iniziativa di Libera venne collocata all’ingresso del cimitero, in attesa che quel nome venisse anche scritto sulla sua tomba. Adesso c’è, ma sono stati necessari anni, tanti anni. Questa storia è la fotografia esatta di una società che dei testimoni di giustizia avrebbe voluto fare a meno. Ed è una foto di oggi, di come l’attuale Governo vuole trattare i testimoni di giustizia.
Non riconoscendo loro il valore delle loro testimonianze. Forse in quella calda giornata del 26 luglio 1992 la giovanissima Rita ha immaginato la sorte che l’attendeva, e quelle sue poche forze non sono riuscite a sorreggerla moralmente. Noi ancora oggi dobbiamo chiedere perdono a Rita Atria, non le siamo stati vicino abbastanza.
E lei ha scelto di farsi cadere giù da quella finestra della casa dove il servizio di protezione l’aveva portata, lontano dalla Sicilia e da Partanna. Borsellino moriva in via d’Amelio a Palermo, lei morirà in quella casa in via Amelia a Roma. Scherzo del destino, con i nomi delle vie similari. Rita venne ripudiata dalla madre, come venne ripudiata dai suoi concittadini, troppo picciridda per saper dire le cose, andavano dicendo per sminuire il valore delle sue parole. Affermazioni ripetute dai difensori degli imputati durante i processi.
La storia di Rita Atria è tutta qui, e non basteranno mai le parole, oggi tante, usate per ricordarla.
C’è il giallo sul suicidio, ma è solo un giallo, per il quale va riconosciuto il lavoro di chi, come Nadia Furnari e la giornalista Giovanna Cucè, insistono nel dire che ci sono cose che non tornano, un puzzle che manca di alcuni pezzi. Ma giallo a parte, oggi Rita Atria se fosse viva ci racconterebbe quello che da qualche giorno vanno dicendo in giro i suoi “colleghi” testimoni di giustizia. Abbandonati anche alla mercè di quei mafiosi che hanno sete di vendetta.
Rita non fu solo una testimone di giustizia, lei impersonava la voglia , sottaciuta in alcuni, di cambiamento, le sue parole volevano essere la dimostrazione che era possibile realizzare un mondo fatto di legalità e lealtà, non fu animata dallo spirito di vendetta, ma dalla voglia di cambiare, la voglia di vedere altre donne denunciare e rifiutare la mafia.
“Per sconfiggere la mafia – scrisse un giorno Rita – devi sconfiggere quella che tu porti dentro”… lei se ne liberò raccontando ai magistrati tutto quello che sapeva per averlo ascoltato. Rita Atria puntò il dito contro mafiosi e politici che si sedevano con i mafiosi.
Dobbiamo lavorare e non fermarci per realizzare il sogno di Rita. E dobbiamo farlo facendo i nomi e i cognomi di chi ancora oggi da queste parti in Sicilia ma anche altrove, continua a stringere mani che non dovrebbe stringere, che non rispetta la distanza di sicurezza dalla mafia e peggio ancora c’è chi nelle istituzioni non si preoccupa nemmeno di evitare che ministri stringano mani che non dovrebbero stringere. Dobbiamo insistere anche dinanzi ad un Governo che vuole fermare i magistrati e mettere il bavaglio ai giornalisti. Non ci sono vicende scollegate, il piano oggi messo in atto ha un unico comune denominatore, rimettere indietro gli orologi della storia, applicare quelle regole pensate dal gran maestro della P2 Licio Gelli e sposate dal cavaliere Silvio Berlusconi. E’ quella l’Italia alla quale molti pensano. Tanti di noi sono di parere contrario e si lotta ogni giorno per difendere la nostra Costituzione.
“Oggi – spesso così ci ricorda Salvatore Inguì coordinatore provinciale di Libera – siamo qui a ricordare a tutti che le mafie ci sono e sono in mezzo a noi, ci sono i mafiosi ed i loro complici che siedono anche nei Palazzi delle Istituzioni, governano le imprese e le economie. In questa provincia di Trapani restano ancora in giro quei lupi che un giorno di settembre del 1988 azzannarono a morte Mauro Rostagno, che hanno preso parte alla pianificazione delle stragi e degli attentati, che hanno festeggiato per la morte di Falcone e Borsellino, alle stragi del 1993, a quella di Pizzolungo del 2 aprile 1985. C’è una politica che resta fatta degli stessi uomini di sempre, quelli che usciti anche
assolti dalle aule dei Tribunali non abbiamo mai sentito fare mea culpa e che continuano a stringere mani insanguinate. Ci danno fiducia i giovani che invece senza colpe da scontare oggi sono qui nelle terre che portano il Tuo nome per lavorare e togliere i beni ai mafiosi, che partecipano per restituire queste terre alla gente comune, onesta, operosa. Noi ancora oggi saremo a Partanna per fare promesse solenni dinanzi alla tomba di Rita: lavorare per denunciare le contraddizioni irrisolte, le occasioni sprecate, definire il cammino da riprendere, non abbiamo per nulla voglia di abbassare la guardia, chi decide di seguirci sa che non sarà una passeggiata e sa che non ci sono passerelle da attraversare”.
Il nome di Rita Atria per decenni non è stato scritto sulla sua tomba, ma il suo nome presto venne impresso sui terreni confiscati alla mafia, grazie a quella cooperativa sciale che porta il suo nome e gestisce questi terreni nel Belìce.
Trentatré anni dopo continuiamo a ricordare non solo oggi ma ogni giorno quella “picciridda”, che con la sua testimonianza ci ha fatto scoprire quanti adulti, di ieri e di oggi, tanti purtroppo, restano incapaci ad essere altrettanto adeguati alle sue parole.