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Sette dubbi e una certezza: il terrore non si ferma a Parigi

11 Gennaio 2015 08:28, di Redazione
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Ho sempre pensato che la parola “Intelligence”, usata per indicare i servizi segreti dei diversi Paesi, costituisca il più delle volte una contraddizi...

Ho sempre pensato che la parola “Intelligence”, usata per indicare i servizi segreti dei diversi Paesi, costituisca il più delle volte una contraddizione in termini. La Cia americana, in giro per il mondo, ce ne ha dato nel tempo numerose, drammatiche e spesso anche umoristicamente tragiche prove. Dico questo - chi mi conosce lo sa bene - da grande amico dell’America e degli americani: intesi però come loro, come The People…; insomma, come quelli lì che avevano scritto la Costituzione più bella del mondo, quella dove tra l’altro si fa preciso ed espresso divieto di legiferare in materia di religione: “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione”. Pensiamoci, di questi tempi: giù il cappello di fronte a una simile prosa costituzionale. Poi, punto e a capo. Veniamo all’oggi e a questa Europa impaurita e scossa. Non ho fatto a caso la premessa sui servizi segreti. Ma soprattutto non l’ho fatta per il gusto della battuta fine a se stessa. Non sono giorni da battute di spirito. L’ho fatta per dire che oggi, a mente fresca, mi sento di riassumere con una sola parola il mio stato d’animo dopo la provvisoria conclusione della vicenda parigina. Questa parola è: perplessità. Forse pesano un po’ i miei quasi quarant’anni di giornalismo, nel corso dei quali ho visto tante - direi troppe - storie misteriose e rimaste tuttora irrisolte. O forse pesano gli anni tout court, quelli anagrafici, nel senso che inizio molto più naturalmente a invecchiare. Fatto sta che, pur non essendo mai stato un "dietrologo", devo ammettere che in questa terribile vicenda ci sono alcuni elementi che non mi tornano. Parlo di cose che potrebbero anche avere un loro legittimo motivo, quello che tutti noi chiamiamo Caso e cioè il figlio naturale del Destino: nel senso che è andata così perché era così che doveva andare. Eppure c’è qualcosa che a me parla tanto di una “manina”, o di più d’una. Vado a elencare, con la doverosa premessa che da spirito laico, quale so di essere, non ho mai avuto e mai avrò certezze. Dubbi, per fortuna, tanti. Di conseguenza, se mi sarò sbagliato, per cortesia ricordatemelo. Anche perché sarei molto felice di essermi sbagliato. Dubbio numero uno: oltre ad andare e venire dalle patrie galere, i due fratelli Kouachi, poi uccisi, entravano e uscivano liberamente dalla Francia, “per” e “da” Paesi ad alto rischio terroristico e squassati da conflitti. Questo nonostante i loro nomi fossero da tempo nella lista nera del governo di Washington, quella dove sono elencati tutti gli indesiderati per sospette attività, e che quindi non possono entrare in territorio americano. Qualcuno dirà: ma i servizi tra loro non si parlano, non si scambiano informazioni. Certo, è possibile: sarebbe la logica conseguenza di quel mio legittimo dubbio circa la validità della parola Intelligence. Ma a volte può succedere che si parlino invece troppo. Sia come sia, se è cosa nota che non tutti i Paesi si scambino informazioni, dubito che questo possa riguardare Usa e Francia. Lo stesso Obama, all’indomani dell’attacco a Charlie Hebdo, ha detto una cosa che non ricordavo di aver mai sentito da un presidente americano, ovvero definire la Francia come “il nostro più antico alleato”. Il che è storicamente vero, se uno pensa a chi aiutò i coloni americani nella guerra di Indipendenza (1775-1783) contro Londra. Per non dire chi regalò a New York la Statua della Libertà. Dubbio numero due: un commando ben addestrato alle tecniche di guerra che dimentica nell’auto della fuga un documento d’identità? Che ce l’avessero con sé era logico, per evitare intoppi in eventuali controlli, ma lasciarne scivolare uno nell’abitacolo della Citroen mi è parso strano. “Soldati” della Jihad, dell’Isis, di AlQaeda - o di qualsiasi altro diavolo che se li porti - perdipiù vestiti con tute tattiche dotate di tasche sigillate da zip o velcro, che smarriscono un documento in giro così come può fare la casalinga di Voghera con la tessera punti del supermercato? Lasciatemi nutrire qualche dubbio e pensare ancora a quella “manina”. Appunto, perché le parole contano: documento “dimenticato” oppure “lasciato scivolare”? Dubbio numero tre (consequenziale rispetto al precedente): in una capitale europea dove nei giorni prima, per ammissione dello stesso presidente François Hollande, erano stati sventati altri attentati, e che quindi si presume essere piena di poliziotti, tre individui girano in auto vestiti con tute nere come quelle senza destare sospetto in uno, dico un solo agente o "flic" durante una sosta ai semafori? Dio mio, può essere; ma allora quello stesso Dio abbia ben cura di Parigi e tenga tutte e due le mani sulle teste dei parigini! Dubbio numero quattro: “Hanno abbandonato l’auto e ora fuggono a piedi”. Poi no: “Sono su un’altra auto e hanno una sparatoria con la polizia per strada”. Tutto ammissibile, che diamine, ma con 90 mila uomini sul campo bastavano due vetture di traverso per chiudere a monte quella arteria. Oppure qualcuno voleva che l’epilogo avvenisse proprio in una località sperduta, una sorta di nowhere francese? Dubbio numero cinque: due killer spietati come quelli, due che sono tornati indietro per ammazzare un poliziotto già morente sul marciapiede lasciano poi vivo l’ostaggio che hanno in mano (il titolare della tipografia dov’erano asserragliati, ma si è detto che non lo sapessero) ed escono a immolarsi per Allah? Cinematograficamente possibile, ma con uno sceneggiatore dotato di poche idee, o perlopiù di luoghi comuni. Dubbio numero sei: gli epiloghi dei due assedi, quello, appunto, in campagna e quello nel supermarket kosher di Parigi, pur essendo così distanti tra loro e presentando dinamiche e caratteristiche logistiche e geografiche totalmente diverse, coincidono poi alla perfezione come tempistica, nel senso che si svolgono nello stesso istante? Se è andata così, il Caso ci ha messo parecchio del suo zampino. Dubbio numero sette (l’ultimo che ho, ma non meno inquietante): dov’è e, soprattutto, chi è la giovane Hayat Boumediene, che secondo la versione ufficiale sarebbe la fidanzata del terrorista Amedy Coulibaly? Ora c’è chi, tra le autorità di polizia, e tanto per aumentare la chiarezza, dice che non era lì. Ma se non era lì perché è saltata fuori con tanto di fotografia? E se si trovava nel supermercato dal quale lei sola (di loro due) è uscito vivo come ha fatto, considerato il muro di polizia che c’era intorno? Se ce l’ha fatta a scivolare fuori indisturbata… beh i miei complimenti sinceri: alla faccia di Mata Hari! O forse è scivolata fuori come la carta d’identità? Ora qualche fonte dice che non fosse nemmeno a Parigi ma, da giorni, in Siria dove sarebbe arrivata con un volo da Madrid in compagnia di un francese noto ai servizi di sicurezza. Appunto. C’è da sperare che domattina non salti su qualcuno che giuri di averla vista mentre si beveva un’anice al bar dell’hotel Negresco di Nizza. Fin qui le mie impressioni in merito a una vicenda sulla quale nutro, purtroppo, una sola certezza: non resterà isolata. Né in Francia, né altrove in Europa o nel mondo. Nel 2015 ci saranno le elezioni in Grecia, in Spagna e Gran Bretagna (queste ultime legate alla permanenza di Londra nell’Ue), con la possibilità di urne anticipate in Italia e nella stessa Francia. Giulio Andreotti diceva che a pensare male non si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Beh, il mio pensiero malevolo è che queste brutte cose, nelle democrazie, arrivino quasi sempre in coincidenza con le chiamate alle urne. In Francia, questa è la puzza che almeno percepisco io, potrebbe essere andata in scena in superficie la cruenta guerra di strada che abbiamo visto, a uso dei media, mentre se ne combatteva un’altra molto più sotto, in modo invisibile, tra due anime dei servizi: un’anima antigovernativa, che potrebbe aver usato con sapienza i burattini armati (convinti di agire per conto proprio, s’intende) per scatenare paura e favorire così uno schieramento politico antieuropeo già di per sé rampante in Francia e altrove; e un’anima invece lealista, o governativa, che risultando vittoriosa consente a Holland la parata ecumenica con gli altri capi di Stato e premier europei. Una manina? No, tante. Diciamo almeno due. Altre annotazioni, non più impressioni. Che potesse succedere era solo questione di tempo. Restando entro i confini europei, infatti, lo spazio temporale tra l’ultimo grave attentato - in termini di vittime - e quello a Charlie Hebdo è molto ampio. Mi riferisco al luglio 2005 con le 52 vittime nei quattro diversi attacchi alla metropolitana londinese. Questo dopo le bombe del marzo 2004 che uccisero in Spagna 191 passeggeri in tre stazioni ferroviarie. Più ravvicinata cronologicamente, ma diversa per matrice, fu la doppia strage provocata dall’estremista anti-islamico norvegese Anders Behring Breivik che, il 22 luglio 2011, uccise 69 studenti in una sparatoria sull’isola di Utoya e altre otto persone con una bomba a Oslo. Ma fu più un caso di psichiatria criminale che di terrorismo internazionale. Non stupisce il profilo dei due attentatori: cittadini francesi, pur se algerini di origine. Così come in quei Paesi erano nati gli attentatori a Londra nel 2005 e quelli in Spagna nel 2004. Èun fenomeno studiato ed è un fenomeno generazionale. Lo toccai con mano nel luglio 2005 proprio a Londra, dove ero stato inviato dal mio giornale. Dal giorno dopo ebbi l’incarico di cercare storie nei quartieri periferici a più alta densità islamica, come quello di Stockwell nel quale vivevano gli attentatori. Dopo comprensibili resistenze riuscii a farmi aprire molte porte e a parlare: adulti e anziani non si davano pace e ripetevano: “Perché lo hanno fatto? Noi dobbiamo tutto a questo Paese che ci ha dato pace, libertà, lavoro e benessere. Perché i nostri figli hanno commesso quell’orrore?” I giovani non c’erano, erano altrove. E se li avvicinavi biascicavano due parole e se ne andavano. Parte della questione sta proprio nel salto generazionale. Chi è immigrato perché in fuga da un mondo povero, violento e oppressivo, nutre di norma un senso di forte riconoscenza verso la patria acquisita; chi ci nasce, invece, può prendere una diversa strada. Scrivo “può” nel senso che non è così in generale. Non è la regola. L’agente ucciso a Parigi era immigrato, musulmano e fiero neo cittadino francese. Adesso qui da noi, oppure in Francia, o in altri Paesi europei dove prosperano movimenti sciovinisti, in tanti sbraitano sostenendo che tutto l’Islam uccide, che l’Islam è solo quello. Èun’assurdità, prima che una falsità: come se qualcuno, nel 1992, avesse voluto addossare all’intera Sicilia la responsabilità degli attentati a Falcone e Borsellino. Queste facezie le lascio a Salvini e ai suoi amici. Io penso che proprio quelli che sbraitano dicendo che non esiste un Islam moderato sono in realtà coloro che non vogliono l’esistenza di un Islam moderato. Anzi, non hanno interesse che esista, perché un Islam moderato sempre più esteso e visibile toglierebbe loro seguito e voti: insomma, l’ossigeno. Uno dei nodi fondamentali della questione è appunto questo: l’Occidente ha ora l’obbligo di far crescere e rendere più visibile questo Islam moderato. Non gli si chiede di farlo come missione altruistica, ma nel proprio interesse. Finora ha fatto soltanto il contrario, America in testa, con guerre inventate su un motivo inesistente come l’arma di distruzione di massa, ma per procurare a buon prezzo il petrolio (che invece c’era) agli amici della famiglia Bush. Guerra che ha portato alla caduta e impiccagione di un bieco dittatore come Saddam che tuttavia, guarda caso, era stato in precedenza finanziato e armato da Washington; senz’altro un brutto figuro, che però oggi sono forse gli stessi suoi peggiori nemici - i curdi - a dover rimpiangere per via della destabilizzazione provocata da quel conflitto balordo e affaristico. E si arriva poi al disastro in Libia provocato dalla Casa Bianca obamiana e dagli alleati francesi. Lo ha ricordato Massimo Cacciari, rara testa pensante della sinistra italiana e non a caso proprio per questo fatto fuori politicamente dal Pd. Senza negare l’esistenza di un Islam pericoloso, Cacciari ha sottolineato il pericolo di aggravamento di questo rischio se in Europa, in seguito a questi fatti, dovessero rafforzarsi i movimenti razzisti. Gli stessi che spingono - stupidità o disegno preciso? - verso la disgregazione dell’unità del Vecchio Continente; partendo magari dalla follia di fare uscire dalla Ue proprio la Grecia, e cioè la culla di questa nostra civiltà. Ma non tutti hanno studiato a sufficienza la Storia. "Tout se tient", dicono in Francia. Così può succedere che qualcuno, alla fine, tenga davvero tutto insieme, senza andare molto per il sottile: mettendo bombe, tagliando gole, facendo strage di chi dileggia la sua religione, minacciando i luoghi sacri alla religione altrui. Su questo tengo ad aggiungere una nota personale: da giornalista di lungo corso, nonché da liberale fin quasi dalla nascita, non posso che essere un paladino della libertà di stampa. Anzi, io vado oltre chi condanna ogni forma di censura; per me, come sosteneva Luigi Einaudi, non ci dovrebbero essere nemmeno leggi che si occupino della materia. “La miglior legge sulla stampa è: nessuna legge sulla stampa”, scrisse il nostro più grande Presidente nelle sue meravigliose "Prediche inutili". Detto questo, da agnostico che invidia chi crede e che rispetta tutte le religioni, mi sento di dire che mai e poi mai, in un mio articolo, arriverei a definire “una merda” un libro sacro a milioni di persone. Anche perché poi può succedere - lo abbiamo visto - il peggio. Succede con chi appunto tiene tutto insieme. Succede con chi moderato di suo non è. Succede con chi magari intravvede nel miraggio omicida la personale scorciatoia per la riscossa o per l’aldilà (tanto, per quelli fatti così cambia poco). O ancora può succedere con chi, più semplicemente, si è trovato a nascere “diverso” in un mondo che non sente come il suo. A uno di quei ragazzi fatti così - potenziali bombe umane - nel 2005 a Londra riuscii a strappare due parole, a chiedergli perché si sentisse a disagio: “Non odio nessuno e detesto la violenza - mi disse - ma provo disgusto per il linguaggio, i modi di fare e l’abbigliamento di tante mie coetanee non musulmane”. Certo non condivisi, rifiutandomi di legare una gonna corta a un attentato, ma iniziai a pensare. Quando poi vidi il quartiere in cui viveva, mi ritrovai a pensare ancora di più. Va da sé che questi non sono motivi per armarsi, per distruggere “gli infedeli” o per fare strage nella redazione di un giornale satirico. Probabilmente molti altri giovani islamici, in Europa e altrove, provano lo stesso disagio, pur se non proprio lo stesso disgusto di quel ragazzo nei confronti dei nostri costumi, ma non lo traducono in odio. Anzi: è un fatto che su Twitter stia dilagando da due giorni l’hashtag #notinmyname (non nel mio nome) messo come firma a migliaia di messaggi e vignette schierate contro quell’Islam che ha scelto invece di odiare e di uccidere. Giovedì ho ascoltato con profonda emozione, su Rainews24, le parole di Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, il quale ha aperto senza “se” e senza “ma” le sue braccia proprio a quel mondo islamico moderato “che esiste - ha detto - e che rappresenta la sola risorsa per uscire da questa prospettiva di morte. Abbiamo bisogno di loro, di farli emergere, di farli vedere”, ha ribadito. Parole che in bocca ad un ebreo pesano come macigni. Macigni positivi, macigni di pace. Parole che forse per questo hanno trovato scarsa eco sui media italiani. Forse perché la pace non fa audience in tv e non fa vendere più copie ai giornali. Guido Mattioni [Guido Mattioni, giornalista, ha iniziato la professione nel 1978 quando Indro Montanelli lo portò dal Friuli - dove si era messo in luce come corrispondente locale durante e nel post terremoto del 1976 - a Milano. Oltre che al Giornale ha lavorato a Epoca, Espansione e Gente Money. Grande conoscitore in particolar modo dell’America, che ha girato quasi per intero, è stato autore di reportage, inchieste e interviste a grandi personaggi in Italia e in tutto il mondo. Nato a Udine nel 1952, Mattioni vive a Milano dal 1978 e, dal 1998, è cittadino onorario di Savannah, in Georgia, la località americana dove ha ambientato il suo primi romanzo, "Ascoltavo le maree". Nell'aprile dello scorso anno è uscito "Soltanto il cielo non ha confini", sempre per i tipi di Ink Edizioni].

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