Palermo – di Filippo Messana (già consigliere alla Corte d’Appello di Palermo e Magistrato di Sorveglianza fonte corriere.it) – Dobbiamo fare in modo che il posto di Magistrato di Sorveglianza non sia considerato come un modo per «spezzarsi la carriera» perché un «ufficio sine cura»
«Suicidi in carcere, un pesante fardello».
Così ha esordito il Ministro della giustizia Carlo Nordio in Parlamento, rispondendo al question- time sempre alla stessa domanda, posta male per la verità, dato che nessuno degli interroganti ha incalzato il Ministro sulle questioni che stanno a monte dei suicidi e che ne costituiscono l’inesorabile matrice.
L’indirizzo politico espresso dal Governo (sicurezza collettiva e certezza della pena), in realtà, ha prodotto una proliferazione di figure di reato anche per fatti «bagatellari» (di scarsa rilevanza criminale) con costanti violazioni del principio di proporzionalità (tra condotta illecita e sanzione) costantemente richiamato dalla Corte Costituzionale e sul quale è tornato «a bomba» l’Ufficio del Massimario della Cassazione nella sua recente relazione n. 33/2025, esprimendo un parere critico sul cosiddetto «Decreto Sicurezza» e censurando anche l’emanazione di dette norme penali, in assenza dei presupposti di «necessità e urgenza» previsti dalla Costituzione come specifici presupposti necessari dell’emanazione di norme per decreto.
Eppure dal 1931 al 2002 lo Stato ha mantenuto un costante impegno a garantire le misure poste a fondamento delle finalità rieducative della pena e del reinserimento sociale dei detenuti, nonostante le emergenze del terrorismo degli «anni di piombo» 70/ 80 e delle stragi degli anni 90, e ciò costantemente fino agli anni 2000.
Può dirsi che si profili un radicato indirizzo del legislatore nel mantenere la pena detentiva in carcere come extrema ratio, cui ricorrere in caso di fallimento di forme alternative di esecuzione della pena inflitta dal giudice con la condanna conseguente al riconoscimento del reato e del suo autore.
Rimane essenziale, però, che il detenuto avverta il senso e il fine dell’attività di analisi che viene compiuta su di lui, come è di rilevanza vitale che gli operatori contribuiscano a stabilire una qualche connessione con il mondo esterno (con il mercato del lavoro o comunque con il settore di attività per la quale il paziente ha mostrato interesse o dimostrato una qualche esperienza già maturata).
L’attesa, il silenzio, l’indifferenza o peggio eventuali violenze subite all’interno dell’istituto costituiscono le peggiori incrinature della descritta attività di osservazione e del processo di reinserimento sociale in corso.
E proprio l’assottigliarsi della speranza e la mancanza di certezze all’esterno del carcere sono all’origine della perdita di identità e anche del significato della pena che si sta scontando, non soltanto la mancanza di uno spazio vitale sufficiente, e che ne costituisce un’aggravante indiscutibile.
In Commissione Giustizia della Camera la Ministra della Giustizia Cartabia ha affermato: «Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere» [il Dubbio 16/3/2021].
Non sembra di poter affermare che l’alluvionale produzione di nuove figure di reato punite con pena detentiva costituiscano – oggi – espressione dell’indirizzo politico dell’attuale governo e ci si chiede come alleggerire il «fardello» che reca sulle spalle la comunità tutta.
Ora che la «questione detenuti» è diventata di rilievo nazionale, c’è da sperare che la domanda per un posto di Magistrato di Sorveglianza non sia considerata più da fior di magistrati plurititolati come equivalente a «spezzarsi la carriera» perché un «ufficio sine cura» e l’esecuzione della pena solo una questione di calcolo o peggio di interrogazione astrale.