Trapani Oggi

Un anno fa moriva "u siccu" Matteo Messina Denaro - Trapani Oggi

Campobello di Mazara | Cronaca

Un anno fa moriva "u siccu" Matteo Messina Denaro

25 Settembre 2024 08:39, di Laura Spanò
visite 2565

Il boss catturato a gennaio a Palermo si spegneva nell'ospedale de l'Aquila

Castelvetrano - Un anno fa giusto oggi presso l'ospedale San Salvatore a l'Aquila moriva Matteo Messina Denaro il boss di Castelvetrano, l’ultimo degli stragisti di cosa nostra, catturato dopo 30 anni di latitanza. Messina Denaro muore in una stanza sorvegliata dell’ospedale dopo avere trascorso gli ultimi otto mesi nel carcere di massima sicurezza della città. Muore per un cancro al colon, malattia grazie alla quale viene arrestato il 16 gennaio 2023 alla clinica la Maddalena di Palermo, dove era in cura.

Una vita la sua legata a stragi ed efferati omicidi. Il giovane Matteo, rampollo di don Ciccio Messina Denaro, aveva iniziato da giovanissimo a seguire le orme del padre. A Binno Provenzano (nel periodo della latitanza anche di quest'ultimo) Matteo Messina Denaro scriveva in uno dei suoi pizzini “Con le persone che ho ucciso potrei riempire un cimiteroâ€.

Messina Denaro è riuscito, grazie alla rete di protezione mai scardinata fino in fondo, a sfuggire alla cattura per trent'anni, diventando uno dei criminali più ricercati al mondo. Una rete quella che gli ha fatto scudo in questi anni composta dai familiari e fedelissimi (anche insospettabili), che lo ha protetto fino al giorno del suo arresto a Palermo, dove si trovava per un ciclo di chemioterapia.

Una latitanza la sua vissuta prevalentemente a casa sua, in quel triangolo di Belice che comprende Castelvetrano, Campobello di Maza e Mazara del Vallo. E' stato accertato che gli 4/5 anni poi li abbia trascorsi prevalentemente a Campobello di Mazara, vivendo la sua vita tranquillamente, alla luce del sole. Usciva, aveva un’auto, si intrateneva con le sue amanti, andava al supermercato, trascorreva l'estate al mare a Tre Fontane, giocava a poker in casa dei coniugi Bonafede/Lanceri.

Ma nessuno lo ha mai riconosciuto a Campobello di Mazara il signor Francesco, così come si faceva chiamare. Viaggiava spesso, andava a Palermo dove incontrava altre donne, dove andava al ristorante, dove andava in banca, dove andava a farsi i tatuaggi. Ma nessuno lo ha riconosciuto. Mai sposato, ha una figlia, Lorenza, riconosciuta solo poco prima di morire.

Solo dal momento della sua cattura è iniziata a cadere parte di quella rete di fiancheggiatori che hanno protetto il boss. A un anno dalla sua morte molti di questi hanno subito un processo arrivato ad un verdetto.  A cominciare da Rosalia Messina Denaro, sorella del boss, nome in codice “fragolone†che per gli investigatori ha gestito la cassa della famiglia ed è stata "punto di riferimento della riservata catena dei pizzini del latitante", condannata nelle scorse settimane a 14 anni di carcere. Catturato il boss in galera sono finiti anche: Emanuele Bonafede e la moglie Lorena Ninfa Lanceri ritenuti i “vivandieri†di Messina Denaro. A 13 anni è stata condannata la Lanceri, a 6 anni e 8 mesi il marito. In carcere per partecipazione ad associazione mafiosa anche il geometra Andrea Bonafede 59 anni, che ha fornito identità, tessera sanitaria e bancomat al boss, ora condannato a 14 anni. Pure condannato a 6 anni e 8 mesi, l'altro Andrea Bonafede, dipendente del comune di Campobello (fratello di Emanuele e cugino del geometra). É accusato di aver fatto da “postino†tra il boss, allora latitante e il medico Alfonso Tumbarello nel periodo in cui il capomafia era in cura per il cancro al colon che poi l’ha ucciso. Anche Tumbarello è finito in carcere, poi ai domiciliari, oggi sotto processo dinanzi al tribunale di Marsala. Tra i Bonafede in carcere è finista anche Laura la maestra, figlia di Leonardo. È accusata di aver coperto la latitanza dell'ex padrino e risponde dei reati di favoreggiamento aggravato e procurata inosservanza della pena. In carcere pure l'imprenditore agricolo di Campobello, Giovanni Luppino, l'autista che accompagnava alla clinica La Maddalena il boss per la chemioterapia nel giorno del blitz, condannato a 9 anni e 2 mesi. Arrestati anche i figli Antonino e Vincenzo Luppino, si trova ai domiciliari invece Martina Gentile, figlia di Laura Bonafede. Indagati sono pure l'architetto Massimo Gentile (in carcere), il radiologo Cosimo Leone e l'operaio Leonardo Gulotta. È indagati sono pure due medici: il gastroenterologo ed endoscopista di Marsala Francesco Bavetta e il chirurgo dell’ospedale di Mazara del Vallo Giacomo Urso. Entrambi i medici ebbero in cura l’allora latitante nell’autunno del 2020. Ma nella lista degli indagati figurano anche alcune persone di Campobello che erano soliti giocare a poker a casa dei coniugi Bonafede Lanceri assieme al boss.

Le indagini per ricostruire la rete di favoreggiatori sono continuate e gli investigatori hanno raccolto una mole impressionante di documenti, pizzini, oggetti vari tra cui ben 122 chiavi chissà quali porte e garage, rifugi immaginiamo utilizzati dal boss e dai suoi solidali più vicini. Ma poi ci sono le chat, i cellulari, le testimonianze, lettere, appunti vari. I vari rifugi l'ultimo scoperto a Mazara del Vallo in un condominio.

Ed ora spunta il verbale di una donna di 38 anni, legata al boss dal 2019 al 2022, che racconta di viaggi, cene a Mondello e Sferracavallo, una vacanza in un resort dell'Addaura e lo shopping al Conca d'oro. Gli incontri in uno dei suoi covi e la scoperta della malattia. Una donna che però dice di non aver capito chi fosse: "Si è presentato come il dottore Francesco Averna, viveva in via Belgio...". Si tratta di una delle sue amanti. Le sue dichiarazioni sono contenute in un verbale di 208 pagine - dove ci sono nomi, luoghi e indicazioni importanti per le indagini - in cui la donna di Campobello di Mazara, 38 anni, il 17 luglio dell'anno scorso, ha raccontato quello che consce di quell'uomo con cui era stata per 4 anni. 

La storia della primula rossa di Castelvetrano

È stato l'ultimo padrino di Cosa Nostra e tra i latitanti più pericolosi d'Europa. Di lui non si sono mai avute né foto segnaletiche né impronte digitali. Classe 1962, è nato il 26 aprile a Castelvetrano, figlio di Francesco e Lorenza Santangelo. Un fratello Salvatore ed una sorella Patrizia, finiti in prigione in una operazione antimafia effettuata nel dicembre 2013, la sorella Rosalia invece alcune settimane dopo il suo arresto, per aver gestito la “cassa della famiglia" ed essere stata "punto di riferimento della riservata catena dei pizzini del latitante". Ed è proprio qua che gli investigatori del Ros trovano la pista giusta che li porterà al suo arresto il 16 gennaio scorso a Palermo. Da quel giorno in carcere sono finite 8 persone: l'autista Giovanni Luppino; la sorella Rosalia Messina Denaro; Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri marito e moglie, Laura Bonafede, Andrea Bonafede, geometra e l'omonimo, dipendente comunale Andrea Bonafede; in carcere (poi scarcerato) il medico Alfonso Tumbarello. A loro bisogna aggiungere poi tutta una serie di persone indagate. Matteo Messina Denaro appartiene alla generazione di mafiosi successiva a quella di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ritenuto responsabile anche della Strage dei Georgofili a Firenze avvenuta nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 nei pressi della Galleria degli Uffizi. Cinque i morti in seguito all'esplosione di un'autobomba, oltre 40 i feriti. Tra le stragi ricondotte a lui quella di via Palestro a Milano, il 27 luglio del 1993, nei pressi della Galleria d'Arte Moderna. Cinque i morti e 12 i feriti anche in questo caso per l'esplosione di un'autobomba. Porta la firma di Messina Denaro anche l'attentato di via Fauro a Roma, quando, il 14 maggio del 1993, un'autobomba esplose vicino alla casa del giornalista Maurizio Costanzo. L'esplosione della bomba non provocò morti ma 24 feriti, tra i quali l'autista e una delle guardie del corpo del giornalista. Conosciuto anche come “diabolik†come il suo fumetto preferito (come lui avrebbe voluto farsi montare due mitra nel frontale della sua 164, ndr), è stato capo e rappresentante indiscusso della mafia trapanese. Matteo Messina Denaro fa perdere le sue tracce nel giugno del 1993. Su di lui un ordine di arresto n° 267/93 - per 4 omicidi, emesso da un giudice palermitano il 2 giugno 1993. Tre giorni dopo scrive una lettera alla ragazza con cui era fidanzato all’epoca, per annunciarle la sua fuga: «Non so se hai capito che nell’operazione di ieri da parte dei carabinieri c’è anche un mandato di cattura nei miei confronti… Qualunque cosa abbiano messo è soltanto una grande infamia, perché sono innocente… È iniziato il mio calvario, e a 31 anni, e con la coscienza pulita, non è giusto né moralmente né umanamente… Spero tanto che Dio mi aiuti… Non voglio neanche pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò… Vuol dire che il nostro destino era questo. Spero tanto, veramente di cuore, che almeno tu nella vita possa avere fortuna… Non pensare più a me, non ne vale la pena… Con il cuore a pezzi. Un abbraccio, Matteo». Stragi, omicidi, attentati e messaggi minatori. La vita di Matteo Messina Denaro è stata punteggiata di crimini. Riuscire a prenderlo era diventata una sfida per gli investigatori. “Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campiâ€, dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio. Il giovane Matteo però non rivelò agli investigatori che oltre al lavoro nei campi, portava avanti anche l’attività criminale del padre “don Ciccio†patriarca di Castelvetrano. Nel 1989 don Ciccio, lo fece partecipare agli omicidi di 4 uomini d'onore della famiglia mafiosa di Alcamo, che erano in dissenso con le strategie trapanesi e corleonesi:strangolati e sciolti nell’acido, come usava fare la mafia allora. A vent’anni partecipò assieme ai corleonesi, alla guerra contro le famiglie ribelli di Marsala e del Belice. A 27 anni venne denunciato per associazione mafiosa. Alcuni collaboratori raccontano che Messina Denaro aveva già ucciso, forse già quando era ancora minorenne. Non si ha il numero preciso dei morti ammazzati per mano sua, ma a suo carico ci sono almeno venti condanne all’ergastolo per altrettanti delitti, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato e ammazzato per vendetta dopo il pentimento del padre Santino; e quello di un vice-direttore d’albergo dove lavorava una ragazza austriaca di cui Matteo si era innamorato, e che si lamentava perché quel ragazzotto e i suoi amici frequentavano l’hotel infastidendola. Il primo a indagare e a scrivere il nome di Matteo Messina Denaro in un fascicolo di indagine fu l'allora procuratore di Marsala, Paolo Borsellino nel 1989. Anche Rino Germanà commissario di polizia a Mazara, iniziò a indagare su di lui e così Messina Denaro decise di farlo fuori: con Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, a bordo di una Fiat Tipo, intercettarono Germanà sul lungomare di Mazara e iniziarono a sparargli addosso. Il poliziotto si buttò in mare e dietro di lui anche Bagarella ma il suo KalaÅ¡nikov si inceppò. E così il poliziotto si salvò. Messina Denaro è stato quello che si vantava che da solo aveva riempito un intero cimitero per i suoi morti ammazzati.

È stato però Matteo Messina Denaro a creare a Trapani la mafia infiltrata nell’economia, nelle imprese, nelle banche a farla diventare una mafia imprenditrice. Dentro le istituzioni, c’èra e c’è, la cassaforte di Cosa Nostra, lo confermano i maxi sequestri di milioni di euro, tutti recano il sigillo del super latitante, peq questo la ricerca del patrimonio dell'ex boss è destinata a continuare. È stato il traghettatore dalla mafia che sparava a quella sommersa, che vive dentro le imprese, essa stessa è impresa, quella che una volta faceva eleggere i politici e che poi ha eletto mafiosi destinati a diventare politici. La mafia rappresentata da mafiosi dalle doti imprenditoriali, manager del commercio e del cemento.

Totò Riina, nei dialoghi registrati in carcere, l’ha accusato di aver abbandonato la causa di Cosa nostra per pensare ai fatti propri: «Non ha fatto niente... io penso che se n’è andato all’estero». Giuseppe Tilotta, sospettato di far parte della mafia trapanese, si sfogava così nell’agosto 2015: «Ma anche questo, che minchia fa? Cioè, arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati e tu non ti muovi? Ma fai bordello!». «Io sono del parere che questo qualche giorno, a meno che non lo abbia già fatto, si ritira... e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui oramai non c’è più qua…». Ha guidato la mafia capace di intercettare quei fondi pubblici che sono arrivati per anni in una provincia povera e che si è ritrovata ogni giorno sempre più povera. Lui ha continuato ad essere onorato e rispettato come un “Dio†da tutta la consorteria. “Lu bene vene di lu Siccu. Lo dobbiamo adorare, è u Diu, è u bene di nuiatriâ€. Non solo riverito e servito, ma anche adorato. La sua ultima foto, quella con i rayban con lenti fumè, i poliziotti l’hanno rinvenuta nel 1995: veniva custodita da un suo accolito gelosamente. “Lu putissi viriri, facitici sapiri che se vuole lo posso portare in giro con la moto, ci mettiamo i caschi, e ci fazzu pigghiari un pocu d’ariaâ€. Parole di Vito Signorello, professore di educazione fisica, calciatore, che ha dovuto rinunciare ad una panchina da allenatore alla quale era stato fatto accomodare nonostante si sapesse che fosse un sorvegliato speciale. Le indagini dopo il suo arresto lo confermano. Vale la pena ricordare una intercettazione del blitz antimafia della polizia “Golem†marzo 2010- uno degli indagati diceva all’altro interlocutore di essere propenso a lasciare moglie e figli pur di onorare ed aiutare il boss latitante. La caccia per arrestarlo non si è mai fermata da quel giugno '93. Castelvetrano è stata rivoltata come un calzino, negli ultimi dieci anni sono stati arrestati oltre 200 tra familiari, parenti di primo, secondo e terzo grado, fiancheggiatori e amici, ma di lui solo avvistamenti in Italia e all'estero. A lui si è arrivati per uno “sbaglioâ€, un pizzino che doveva essere stracciato ed invece la sorella Rosalia ha lasciato dentro l'incavo di una sedia. Quel muro di omertà che lo ha sempre protetto è rimasto integro, tranne le dichiarazioni del defunto cugino del boss, Lorenzo Cimarosa, ad oggi neppure i vari collaboratori di giustizia, come Andrea Mangiaracina o Vincenzo Sinacori avevano mai portato al latitante. A dimostrare una sorta di patto di sangue e d'onore che c'è stato tra i fedeli a Matteo Messina Denaro. Chi ha preso il suo posto? Sicuramente in uno dei suoi tanti ordini recapitati attraverso i pizzini avrà indicato il nome del suo successore a cui ha lasciato scettro e comando. La mafia, almeno quella trapanese, rimane una organizzazione che trova sempre capacità di risorgere grazie ad un tessuto sociale dove la maggior parte delle persone preferisce continuare a comportarsi come le famose tre scimmiette, non vedo, non sento, non parlo. Cosa nostra trapanese, purtroppo rimane ben radicata sul territorio

© Riproduzione riservata

Ti potrebbero interessare
Altre Notizie