Un anno fa la cattura di Matteo Messina Denaro
Il procuratore De Lucia: "Un debito che la Repubblica aveva verso i suoi martiri"
«Era un debito che la Repubblica aveva verso i suoi martiri. Il 16 gennaio di un anno fa l’abbiamo saldato». A un anno dall’arresto di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss stragista di Cosa nostra, Maurizio de Lucia, il procuratore di Palermo che, insieme all’aggiunto Paolo Guido, ha coordinato il blitz che ha messo fine alla latitanza del padrino di Castelvetrano, ricorda un giorno ormai entrato nella storia del Paese. «Dovevamo onorare i tanti morti nella lotta alla mafia e questo era uno dei modi migliori di farlo», dice.
Dopo la cattura del boss é stata la volta di quanti hanno favorito la sua latitanza a cominciare da Giovanni Luppino, imprenditore agricolo, ma di fatto fedelissimo autista del boss. Era lui ad accompagnarlo alle sedute di chemioterapia. Per 50 volte in meno di due anni avrebbe fatto la spola tra Campobello e La Maddalena, la clinica in cui il padrino allora ricercato si sottoponeva alle cure per il cancro. Le indagini hanno rivelato che Luppino chiedeva denaro in giro per finanziare la latitanza del boss. L’imprenditore è ancora in carcere e ha chiesto di essere giudicato in abbreviato. La Procura gli ha contestato il reato di associazione mafiosa.
In carcere è finito anche il geometra Andrea Bonafede, che ha prestato l’identità al latitante e gli ha consentito di avere il falso documento per acquistare l’appartamento di via San Vito ora si trova davanti al gup con l’accusa di associazione mafiosa. Per i pm è uno dei personaggi chiave della latitanza del boss.
C'è poi il cugino omonimo più piccolo, operaio comunale, che per mesi ha fatto avere a Messina Denaro prescrizioni e ricette mediche per le terapie. Bonafede è stato condannato dal gup per favoreggiamento aggravato a 6 anni e 8 mesi. Ancora in corso, a Marsala il processo per concorso esterno in associazione mafiosa al medico Alfonso Tumbarello. Era lui a compilare le ricette per il capomafia.
Poi è toccato a Rosalia, la sorella del capomafia. Una sorta di alter ego del capomafia per conto del quale gestiva affari e comunicazioni, scrivono i giudici dopo il suo arresto per associazione mafiosa. L’unica a sapere della malattia del fratello. Fu lei a nascondere nella gamba di una sedia il pizzino, poi trovato dal Ros, con i dati clinici del padrino, indizio fondamentale per arrivare alla sua cattura. E oggi a un anno dall’arresto del fratello, comparirà in udienza preliminare.
La caccia ai fiancheggiatori ha portato ai coniugi Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri. Lui cugino del geometra Andrea, lei amante del padrino e incaricata di smistarne i messaggi. Lanceri è stata condannata a 13 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, il marito a 6 anni e 8 mesi per favoreggiamento.
A finire nella rete degli inquirenti anche Laura Bonafede e Martina Gentile madre e figlia. Bonafede, maestra elementare figlia del boss Leonardo, compagna di Messina Denaro di una vita - i due hanno convissuto quando lui era latitante - attende la fissazione dell’udienza preliminare ed è accusata di associazione mafiosa, la figlia, che gestiva la posta del capomafia, è ai domiciliari per favoreggiamento. «Non mi ero resa conto della sua vera natura», si è difesa la Gentile davanti al gup.
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